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Il giardino dell’erba Voglio

In questi giorni di inizio settembre caratterizzati da un cielo novembrino e una temperatura equatoriale mi sono trovata a rileggere un vecchio post e le reazioni suscitate in chi aveva deciso di commentare – non potendo ovviamente conoscere quelle di chi ha deciso di non farlo. Oppure non ha deciso di farlo, il che è un po’ diverso – ma se continuo lungo questa strada non solo non arrivo al punto, ma non finisco neppure l’introduzione, tutto sommato meno pretestuosa del solito.

Il fatto è che ieri ne ho parlato un po’ con Scassaritratti a cena, dopo essere andata con lei e il futuro marito a comprare le fedi nuziali che regaleremo loro io e ML, l’altro testimone della sposa.

Non ho mai fatto da testimone, prima d’ora; e a dirla tutta lei è la prima, tra le mie amiche, ad aver deciso di sposarsi – dopo un periodo di convivenza, sia chiaro: altrimenti non so se avrei accettato di farle da testimone 😉 Ieri ero un po’ emozionata, in quella minuscola gioielleria fredda come l’interno di un igloo, mentre lei e il futuro marito provavano anelli su anelli sotto gli occhi miei e di ML – scapolone incallito per il dispiacere di innumerevoli e persistenti ammiratrici.

Ed ero ancora più emozionata quando, dopo cena, avevo sotto gli occhi una persona che conosco da più di dieci anni e la vedevo splendere, letteralmente splendere per un appagamento che non era “l’attesa della felicità che è essa stessa felicità” [cit.], era proprio hic et nunc senza possibilità d’appello.

Oggi, pertanto, sono velatamente triste per me stessa, per il fatto che io “quella roba lì” non ce l’ho. Punto. La vorrei e non ce l’ho. E in parte dipende da me, sicuramente; ma non essendo io onnipotente posso ancora dare un po’ di colpa al destino avverso ed evitare di sprofondare nella disperazione. Galleggio su un mare di velata tristezza, pertanto, cercando di farmi un po’ di esami di coscienza.

Quel post sui pro e contro dell’astinenza sessuale era una risposta al fatto che, in quel periodo, non appena dicevo a qualcuno che sarei dovuta / avrei potuto stare per (cfr.) partire per venti giorni nel nord del Brasile, costui o costei cominciava a tirarmi grandi pacche sulle spalle spesso non soltanto figurate e a farmi occhiolini d’intesa: “eh, chissà come ti divertirai, senza un fidanzato e con tutti quei brasiliani belli e disponibili” e ogni variazione sul tema.

Lo so che può sembrare assurdo, ma così come l’anno scorso tre settimane a Cuba nelle medesime condizioni non mi avevano spinto a voler imbastire nessun tipo di relazione sessuale occasionale, all’epoca ero sicura che la discesa nell’emisfero australe non avrebbe portato cambiamenti nel mio atteggiamento.

E anche la salita verso Zurigo, a parte tutto quello che si è trascinata dietro e soprattutto dentro, mi ha regalato – è vero – un incontro con un ragazzo gentile e galante che mi ha offerto non soltanto il caffè ma anche uno squisito biscotto al cioccolato (10% cacao, 90% burro: una delizia). Però… insomma, siamo onesti. Forse avrei potuto spingere le cose un più in là – scambiarsi gli indirizzi email, ad esempio, non sarebbe stata una cattiva idea. Forse avrei dovuto spingere le cose un po’ più in là, non saprei: e il non averlo fatto, il non essere stata una volta tanto respingente ma neppure attraente, almeno in senso “meccanico”, è possibile sia soltanto un altro sintomo delle mie innumerevoli resistenze a non si sa bene cosa (anche se in fondo lo so benissimo). Ma tanto Zurigo se ne sta lì buona buona – e con la città anche quel suo particolare abitante, almeno secondo gli amici comuni.

E comunque, siamo sinceri: io sono convinta del fatto che non soltanto, contrariamente a quanto cantava il buon vecchio Venditti, “c’è sesso senza amore”, ma che addirittura c’è amore senza sesso e le due cose possono essere totalmente disgiunte. O anche, come mi è successo in passato, convivere in uno stesso soggetto ma concretizzarsi con due persone diverse nel medesimo lasso temporale (non spaziale, almeno nel mio caso; nonostante esistano di questo svariati esempi letterari anche di un certo pregio). Ossia, giusto per non dare adito a fraintendimenti: è possibile, nello stesso periodo della vita, amare o comunque provare un profondissimo affetto per qualcuno dal quale non si è attratti fisicamente manco fosse un palo della luce arrugginito e, al contempo, essere invece attratti fisicamente  da un altro essere umano per il quale si prova meno affetto che per il ragno che da due settimane popola l’angolo tra la finestra e l’armadio. Può succedere.

Come ho scritto non ricordo quando (forse sempre nel famigerato post, che però non ho più voglia di rileggere), il sesso è, tra tutte le n cose, anche una forma di comunicazione tra due individui; così come è possibile comunicare verbalmente con una persona ed essere emotivamente coinvolti pur senza essere innamorati (questi individui si chiamano amici, di solito), così è possibile fare sesso, fare del buon sesso con qualcuno ed essere appagati non provando niente di lontanamente simile all’affetto.

Il fatto è che non è quello a interessarmi, ora. Perché amici ne ho tanti e sono persone straordinarie che hanno avuto modo, in un momento brutto come questo, di dimostrarmelo nei modi più svariati. E comunque. Non è quello, non è fare del buon sesso ciò che voglio. Voglio quello stato di necessità per cui la passione sessuale non è disgiunta da tutto il resto.

In queste settimane in cui sono stata, per la prima volta della mia vita, a contatto ravvicinato con la paura della malattia e dalla morte, me ne sono accorta con una vividezza sbalorditiva e a tratti inquietante: io voglio tutto, amore e sesso e amore e sesso e anche qualsiasi altra cosa che sfugga da questo binomio e che al momento mi sono dimenticata; e lo voglio tutto insieme, nello stesso tempo, nello stesso luogo e nella stessa persona. E perché mai dovrei vergognarmi di urlarlo con tutta la voce che ho?

Il lato buono delle cose

Come si diceva oggi con destynova, in momenti come questo scopri se alcuni rapporti vanno avanti perché sotto c’è Qualcosa oppure se è perché le abitudini svolgono il ruolo solitamente assegnato all’interzia.

E’ come se il mondo degli affetti si dividesse in due: quelli veri e quelli presunti. E la scoperta di quanto inaspettata sia la caduta nell’una o nell’altra categoria può fare male, a volte; ma non tanto quanto il bene che fa venire a sapere che ci sono persone piene di emotività e di calore che non chiedono altro se non di riversarteli addosso sotto forma di delicati rivoletti oppure di cascate scroscianti, soltanto per farti capire che ti sono vicine.

E tra queste persone ci siete voi che avete letto, mi avete scritto, mi avete parlato da dietro un sorriso. E che probabilmente dopo questo post mielato e zuccheroso smetterete per sempre di farlo 😉

Mi rendo conto – e lo sapevo ma ora posso davvero rendermene conto con consapevolezza – che sono una persona davvero fortunata, perché sono arrivata ai trent’anni senza aver mai saputo cosa volesse dire soffrire disperatamente per qualcosa che non fosse una pena d’amore. Ma le cose che sono successe a tanti di quelli a cui voglio bene e che ho sempre assorbito a distanza, come se fosse un libro e non come se fosse vita-vera, “finalmente” sono successe anche a me e ai miei cari. Eppure, nonostante il mio quasi-egoismo incolpevole, i trent’anni che ho trascorso senza soffrire mai per qualcosa di così ineluttabile come una malattia, al momento-del-bisogno sono accorsi così tanti affetti anche da fonti insperate e sconosciute da farmi traboccare il cuore di gioia.

Quindi ancora grazie, grazie a tutti voi che avete fatto sì che il buio pervicace fosse invaso da piccoli sprazzi di luce – perché la somma delle parti è minore del tutto, almeno in questo caso in cui il tutto è il lato buono delle cose, quello che ti dà la voglia di tuffarti in un ottimismo non del tutto giustificato – ma chissenefrega: dopo la sindrome di Candy Candy, posso farmi carico anche di quella di Candide.

E grazie soprattutto perché alcuni detrattori potrebbero obiettare che non costa molto lasciare due righe di commento alla fine di un post, o mandare un’email a una sconosciuta, o scambiare due parole consapevolmente gentili e opportunamente affettuose. Ma dal momento che alcune delle persone che mi conoscono da anni si sono guardate bene dal farlo… Questi supposti detrattori farebbero bene a rimangiarsi le proprie obiezioni ancora prima di averle esternate.

Colgo dunque l’occasione, presa dall’entusiasmo, di raccogliere la segnalazione di Mitì e promuovere anch’io un nuovo aggregatore di blog, che mi è piaciuto anche perché per arrivare al sito devi fare un giro che non finisce più, dato che (almeno a me) i link non funzionano mai 😉 – e questo ti dà sempre l’opportunità di scoprire cose nuove.

Nel tentativo che possa essere un’altra piccola ma indispensabile goccia in un mare che preferisco mille e mille volte a quello in cui avrei potuto bagnarmi se, 26 giorni fa, avessi scelto l’altra porta e fossi partita per il Brasile.

L’amore non passa mai. E se passa…

C’era questa canzone che mi cantava mia madre quand’ero bambina: “E’ già passato più di un anno da quando sei partito […] Amore ritorna, le colline sono in fiore ed io amore sto morendo di dolore. Amore ritorna, non importa non fa niente se tu non sei diventato più importante perché sei importante per me.”

Ora. E’ già passato più di un anno da quando, il 1 giugno 2007, ho aperto questo blog.

Ho festeggiato in forma strettamente privata, come da più di vent’anni festeggio le ricorrenze: non facendo assolutamente nulla e compiacendomi in silenzio facendo finta di non pensarci neppure.

Quando ho iniziato non avevo la benché minima idea di quanto sarei andata avanti a scrivere, per quanto tempo, con quale cadenza, in quali forme; non sapevo cosa fosse twitter e non avevo idea di quale potesse essere l’utilità di un tumblr. Ho conosciuto persone reali e virtuali, ho imparato a riflettere sui significati che, dal social web, possono essere trasposti ad altri contesti (tipo la fruizione di un museo – “roba” di cui non scrivo perché un po’ fuori contesto, ma il silenzio sul blog non corrisponde all’inerzia neuronale, a volte).

Non penso di smettere, almeno nel prossimo futuro; a volte mi trastullo con l’idea di pubblicare il mio nome e cognome, magari una foto di quelle in cui io penso di essere venuta terribilmente male e gli altri invece mi dicono “ma se sei venuta benissimo” – e necessariamente mi trovo a riflettere sulla discrasia esistente tra come percepisco il mio volto e il mio corpo quando mi metto in posa davanti allo specchio e come corpo e viso sono visti dalle altre persone, tridimensionalmente e naturalmente. Se quello è il mio “venire bene” in foto, chissà come “vengo bene” nella vita quotidiana, mi chiedo.

E comunque. Per festeggiare un po’, anche se con qualche giorno di ritardo, vorrei omaggiare una delle due persone con cui ho iniziato questa avventura – che – mi – schifo – chiamare – avventura – ma – non – mi – viene – in – mente – un – nome – migliore: lamponcina.

“E’ già passato più di un anno da quando sei partito”: l’anno sarà anche passato, ma l’amore no, quello è rimasto. Da un concetto così semplice oggi lamponcina e io abbiamo tirato fuori un dialogo ricco di spunti che non saprei se ho il diritto di definire profondi – ma divertenti sì, questo sì. O comunque, giudicate voi.

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Odiamore: ho appena trovato un mio ex fidanzato su Facebook. Muoio dalla voglia di scrivergli, ma sono passati dieci anni.

Lamponcina: ma che scema che sei, che problema c’è?

O: non ho più l’allure di quando avevo 20 anni…

L: neanche lui, immagino. Ma non vedi la foto?

O: ha messo questa foto piccolina piccolina in cui se ne sta rintanato sotto una palma con l’aria di volersela mangiare.

L: oddio, sei già un po’ innamorata.

O: hai ragione: mi è tornata tutta, come dieci anni fa. Mi sa che ci scrivo un post, su ‘sta cosa. L’amore non passa mai.

L: e se passa, tu sei già uscito.

Odiamore, piegata in due dal troppo ridere, non riesce a parlare ma unicamente a emettere versi poco dignitosi.

L: scusa, sono nella fase acuta di realcinismo.

Odiamore, ripresasi dalle risate convulse, riempie di complimenti Lamponcina, che si schermisce ma in fondo in fondo si capisce essere piuttosto compiaciuta per lo straordinario gioco di parole.

L: beh… è tragicamente così comunque, mia cara. E’ come con l’omino del gas: tu lo aspetti perché ti hanno detto che arriva tra le 10 e le 17. Esci alle 16.45 e lui arriva alle 16.47.

O: ancora peggio. Tu esci alle 17.30 e lui arriva alle 18. E poi si arrabbia perché non l’hai aspettato. E ti fa la lettura sbagliata del contatore, se la inventa come se invece che in 35 metri quadri abitassi in un ristorante con 350 coperti e passassi tutto il santo giorno a cucinare.

L: nella migliore delle ipotesi tu sei uscita e sei andata a cercare una piastra elettrica – cogli il sottile parallelismo nell’ambito della vita sentimentale – per ovviare alla mancanza di gas.

O (perplessa): non colgo il sottile parallelismo sentimentale. La piastra elettrica come metafora di…?

L: allora. Tu a un certo punto ti stufi di aspettare l’omino del gas (ossia l’AMMORE)…

O: … e vai a cercare un sostituto.

L: esatto. Esci a cercare una piastra elettrica – il sostituto, che chiaramente copre solo una parte delle esigenze che il gas ti coprirebbe.

O: e poi scopri che la piastra elettrica funziona di merda, per di più. E ti fa spendere una maledizione in bolletta elettrica.

L: sì, e per di più costa carissima!

O (piena di pathos): tanto che non riesci più a pagarla e ti tagliano i fili della luce.

L: sì, sì, sì, è proprio così.

O: così sei senza gas e senza luce. Sola come un cane.

L: dai! Spero in un finale meno tragico…

O<: beh, d’accordo. Sei senza gas e senza luce e hai bisogno di andare dal nuovo vicino, che scopri essere una specie di uomo della tua vita.

L: sì, mi piace: viva i vicini!!!!! Anche come metafora, funziona: il vicino è il personaggio che ti è vicino, ma proprio per questo non hai mai considerato….

*******************

E a questo punto, posso soltanto concludere osservando che i miei vicini di casa quando non cucinano piatti speziatissimi con la porta d’ingresso aperta è perché se le stanno dando di santa ragione. Il vicino di casa di Lamponcina, in cambio, è un giovane maestro di nuoto.

Tanti auguri al blog – e tanti auguri a tutti, perché tanto sicuramente male non fa e magari a qualcuno porta pure fortuna. In particolare alla mia amica Scassaritratti, perché si è trasferita da una settimana nella casa nuova con il suo promesso sposo e ancora non le hanno attaccato la corrente elettrica. Quando ho provato a dirle che le candele potevano creare un’atmosfera romantica… Se avesse potuto mi avrebbe azzannato al collo. Ho evitato di consigliarle di rivolgersi ai vicini, sai mai – ché tanto si sa, “piove sempre sul bagnato”.

Per concludere, pertanto, non posso che scrivere, come dice sempre Sole, che davvero non siamo mai contenti. Ma va anche bene così – altrimenti è probabile che ci saremmo già estinti.

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E mi si scalda il cuore

Stavo aiutando mia madre ad apparecchiare la tavola e si affacciavano alla mente cupi pensieri, incoraggiati da Françoise Hardy. Il fatto che avrei trascorso la serata con Mascalzone Latino, tra l’altro, se da un lato mi rincuorava perché contentissima di vederlo e di andare a questo fantomatico spettacolo di etnotango (???), dall’altro mi faceva prefigurare discorsi sul tenore di “mois je vais seule” mentre “tous les garçons et les filles de mon age se promenent” eccetera eccetera. Poco da stare allegri, almeno per quanto riguarda il mio corrente atteggiamento nei confronti della possibilità di amare, essere amata o quantomeno incontrare qualcuno (abbassiamo sempre un po’ il tiro, ché non si sa mai).

E poi. Poi mia madre, colta dall’ispirazione, ha esclamato: “Ma te l’ho detto che c’è un nido sul balcone della sala?”. Un nido, proprio così. Un nido incassato tra le foglie d’edera e la ringhiera, un nido ubicato nella posizione più favorevole rispetto al moto (apparente, ok) del sole e ben riparato dal vento. Un nido su uno dei milioni di balconi di una città di quasi un milione di abitanti. Un nido.

Il nido contiene quattro uova di colore grigio pallido ed è bellissimo. Il nido, d’altra parte, era chiaramente, sconcertantemente abbandonato a se stesso nell’ora del crepuscolo.

Dieci minuti fa, finito di lavare i piatti, mia madre se ne è arrivata con l’aria di chi stava cospirando qualcosa di grosso. Nella mano, una minitorcia, e negli occhi uno sguardo curioso. “Chissà se il nido è davvero abbandonato oppure se, talvolta, i “genitori” delle uova se ne tornano a controllare. Anche perché mi chiedo cos’abbiano da fare gli uccellini tutto il giorno; insomma, mica devono timbrare il cartellino!”.

E così sono partita alla volta della scoperta del nido in situazione notturna: ho puntato la luce di sbieco tra le foglie d’edera, ed era lì. La mamma, tutta rannicchiata e con le ali spiegate a coprire la superficie lasciata scoperta dall’intreccio di rametti e foglie.

Ha ragione Jorge, il tizio che teneva il corso che ho seguito a Barcellona: “non le sue rappresentazioni, i discorsi su o le similitudini rispetto a. E’ l’oggetto, l’oggetto vero e proprio l’unica cosa che davvero emoziona noi esseri umani.” Jorge si riferiva a come allestire un museo, d’accordo.

Ma era da così tanto tempo che qualcosa non mi faceva scaldare il cuore così.

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Per una buona visione

Dopo la settimana a Barcellona sono stata – abbastanza ovviamente – oberata di lavoro. E, di conseguenza, ho poco tempo non tanto di scrivere, quanto per pensare.

Però ci sono alcuni film che ho visto ultimamente e che vorrei consigliare a chi passa di qua, per il semplice motivo che ho la presunzione di pensare che le o gli potrebbero piacere anche moltissimo. In alcuni casi ho addirittura pianto come una fontana, tanto per farvi capire.

Lars e una ragazza tutta sua. Un titolo brutto (un po’ alla “Se mi lasci ti cancello”, traduzione da taglio di un arto, se mi capite) per un film commovente, con una tematica su cui sto cercando di scrivere già da parecchie settimane, quella del fidanzato immaginario.

Lezioni di felicità. Un titolo un po’ sdolcinato, che tuttavia diventa bellissimo nel momento in cui si assapora la scena che ha ispirato i traduttori. In originale, infatti, il titolo di questo film franco-belga è Odette Toulemonde, dal nome della protagonista: un’Amélie Poullain con vent’anni in più, una casa più kitch ma altrettanta poesia. Consigliatomi da Sole in uno slancio incredibile del suo fantastico inconscio. E questa la può capire soltanto lei, temo.

27 Weddings. Semplicemente perché ho l’età della protagonista, perché sta per iniziare anche per me l’epoca d’oro degli inviti ai matrimoni e perché anch’io, come lei e come moltissimi di noi, credo, faccio una fatica incredibile a dire “no“. Ancora con la sindrome della brava bambina che deve sempre dire sì dal momento in cui scopre che, anche se è frustrante, sentirsi “brava” dà anche un certo piacere. A discapito della propria integrità psico-fisica, magari. Ma si tratta di un concetto facile da capire ma quasi impossibile da agire. Almeno per me.

Buona visione, se vi capita 🙂

10 blog che

Gioia e ispirazione: leggere che xlthlx prova gioia e ispirazione leggendo il mio blog mi ha… No, anzi: la sensazione di piacere è privata ed esclusiva, pertanto non la descriverò.

Si tratta di un meme, già già.

Ci sono tanti blog che leggo e che mi guardo bene dall’inserire nel blogroll – aggiornato probabilmente all’estate scorsa, ora che ci penso. Ci sono tanti blog che, in questi giorni di lavoro frenetico e scadenze scadute ancora prima di iniziare, stanno vivendo senza che io ne possa essere partecipe. Post che mi dispiace di avere lì, nel lettore feed, tutti blu perché non letti e accavallati gli uni agli altri.

Ed è nell’ordine in cui compaiono nel lettore che elencherò i 10 che ho scelto. Alfabetico per nome del blog, immagino. E trascurerò quelli in lingue diverse dall’italiano e quelli che ho già citato nel blogroll qui a lato – un qualche criterio dovrò pur inventarmelo, se devo fare una selezione. O no?

C’è Isadora, che ultimamente però scrive molto poco – e allora mi consolo facendomi ispirare informaticamente dall’altro suo blog su come usare wordpress.com.

C’è blogdegradabile, scoperto grazie ad Anobii, dove trovo ispirazione per leggere e spesso mi capita di perdere un po’ le staffe – niente come i libri per tirare fuori il mio lato più appassionato.

Brezza di lago – tanto che, quando ho letto che era stata al BarCamp di Torino e io no, mi sono morsa un labbro dalla stizza. E il nome del blog è così bello ed evocativo che ogni volta in cui lo leggo sento una carezza comasca tra i capelli.

Casaizzo, perché l’autore scrive molto bene e riesce sempre a strapparmi un sorriso – anche se a volte è piuttosto intriso di malinconia.

Catepol: una miniera di informazioni e, di conseguenza, di ispirazione.

C’è Diario semistupido, e non soltanto per l’affinità di interessi.

Gli studenti di oggi, dove vivo una vita lavorativa che avrei potuto scegliere e dalla quale, invece, sono fuggita appena ne ho avuto l’occasione.

La mia isola che non c’è: basta il titolo, no? C’è davvero tanta gioia, qui.

Made in Italy: acuto, intelligente, stimolante, spiritoso – e dal vivo l’autore è mille volte meglio, fidatevi 😉

Il secondo piano di Catriona Potts, perché mi fa sbellicare dalle risate e, soprattutto, mi fa sentire meno sola in un mondo popolato (in gran parte) da pazzi scatenati.

E poi ci sono i soliti noti, quelli del blogroll: gli amici reali e gli amici virtuali, persone che probabilmente non conoscerò mai perché abitano dall’altra parte del mondo e altre che, ciononostante, ho conosciuto di persona come Peter Woit di Not even wrong – il mio piccolo oblò su una vita che ho scelto, un po’ per caso e un po’ per necessità, di non vivere più. Nemmeno nel mondo della fantasia.

“Quella” fase della mia vita

Lo sapevo.

Sto per compiere trent’anni – e sono contentissima, perché i 29, oltre a non essere un granché dal punto di vista numerico, non lo sono stati nemmeno sotto tutti gli altri aspetti. La mia esperienza insegna che i numeri primi non sono mai stati anni particolarmente felici dal punto di vista sentimentale – i quadrati perfetti sono andati alla grande, per contro; ma di aspettare sino ai 36 non è che abbia proprio tutta questa voglia!

Sono quasi due anni che non esco con nessuno – e mi sto godendo tutte le sfaccettature della libertà che questa condizione comporta, implica e sopporta: le limature degli effetti collaterali di ogni singola relazione imbastita (o non imbastita, perché anche quelle contano) da quando ancora non avevo l’età per bere alcolici, lo spaziotempo occupato e occupabile unicamente secondo la volontà della sottoscritta, la tristezza che a volte mi assale quando prendo atto di non essere unica e insostituibile per nessuno che non sia mio consanguineo.

E sto scivolando inesorabilmente, come una massa m lungo il piano inclinato che mi ossessionava nei primi mesi all’università, verso quella” fase della mia vita.

Quella in cui esco con coppie, coppie, coppie e soltanto coppie. E se non sono coppie sono mezze-coppie il cui complemento è rimasto a casa perché in preda all’influenza intestinale – l’unica cosa che, a quanto pare, sia in grado di separare i membri di una coppia di miei coetanei. Perché chiaramente le coppie tendono a selezionare, nel corso del tempo, le proprie frequentazioni riducendole ad altre coppie e a una manciata di amici non accoppiati – che solitamente incontrano in separata sede o comunque non coinvolgono mai nella stessa serata a meno che si tratti di soggetti chiaramente non suscettibili di diventare a loro volta una coppia. E perché questo succeda mi è più oscuro dei misteri di Fatima, per inciso.

Quella in cui quando vedo dei bambini per strada mi produco in sorrisi radiosi e gridolini di entusiasmo che neanche mi stesse passando accanto con sguardo invitante uno dei mie due Colin preferiti.

Quella in cui continuo a rimandare il momento in cui andare a far visita alla mia collega che ha appena avuto un bimbo e, nel momento in cui la vedo, in lontananza, spingere una carrozzina, mi viene voglia di fuggire via. E quando reprimo l’istino infantile (per l’appunto) e le vado incontro, capisco fino in fondo il perché di tutte quelle scuse accampate nel corso delle settimane.

Sole sostiene che quella fase sia in verità incominciata nel primo momento in cui mi sono accorta che altri avevano ciò che io avrei voluto ma non possedevo: il ciuccio con il sonaglietto, la villa di campagna di Barbie, il quaderno della Naj Oleari, qualcuno che mi chiedesse “Ti vuoi mettere con me?” – o, per essere più realisti, qualcuno che mi dicesse “Il mio amico vorrebbe sapere se ti vuoi mettere con lui”… E a ben pensare, ruolo invece nel quale mi sono trovata più di una volta nel corso delle scuole medie, un’amica che ti venisse a sussurrare con un misto di reverenza e invidia: “L’amico di Belloeimpossibile mi ha detto che lui gli ha chiesto di chiedermi di chiederti se ti vuoi mettere con lui”.

Non mi sento di darle torto; l’invidia, il desiderio di possesso, la nostalgia causata da un’assenza: sono tutte caratteristiche della condizione umana fin dal momento della nascita.

Il fatto è che non pensavo quella fase avrebbe mai avuto luogo. E invece, eccola lì: non è ancora iniziata, ma si intravede chiaramente di lontano, come un esercito che avanza, inesorabile.

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It wasn’t a date (was it?)

Lunedì scorso, per me, è stato un giorno di vacanza pura e semplice; al contrario di martedì e mercoledì, in cui ho avuto appuntamenti di lavoro incredibilmente faticosi ma non particolarmente coerenti rispetto a questo post, lunedì era libero di impegni di qualsiasi genere.

Proprio l’occasione giusta per trascorrere due ore a girovagare per una pinacoteca già visitata più e più volte, in passato, con in mano guide turistiche, con sulle orecchie cuffie di audioguide e con in testa brandelli di saggi di storia dell’arte. La libertà, pertanto, di passeggiare tra le sale fermandomi soltanto davanti ai quadri che attiravano la mia attenzione anche se di artisti ignoti ai più; la libertà di fermarmi circa quaranti minuti davanti a un olio di Van Eyck e, due sale dopo, snobbare dei girasoli di Van Gogh perché tanto dopo aver visto questo non c’è storia; la malinconia agrodolce suscitata da Vermeer, in omaggio alla scommessa fatta tanti anni fa con il mio ex fidanzato di riuscire a vedere, nell’arco della nostra vita, tutti i 34 o 35 dipinti di quello che è uno dei miei [dei nostri] pittori preferiti.

L’occasione giusta per bighellonare in un negozio di vestiti tutto sommato più brutti di quelli che trovo in Italia oltre che decisamente più cari, soltanto per avere poi meno tempo da trascorrere in libreria – perché il conto in banca rosseggia ma nonostante ciò ci sono tentazioni alle quali non sono in grado di resistere.

E l’occasione giusta per incontrare un amico che conosco dagli anni delle scuole medie e che ho continuato a incrociare nei corridoi del liceo; una persona trasversale a più di metà della mia esistenza che, tuttavia, non ho mai frequentato se non in quelle rare occasioni in cui ci trovavamo a trascorrere qualche giorno di vacanza nello stesso periodo e nello stesso luogo.

Se però, da un lato, le pinacoteche non fanno altro che rispettare i propri orari di apertura e chiusura, le persone hanno una vita sociale, lavorativa e, a volte, anche segreta: tutte cose che richiedono comunicazioni preventive nel caso in cui tali persone si vogliano o possano incontrare in un lasso di tempo delimitato. Il giorno in cui sono atterrrata, pertanto, ho mandato a quest’amico un sms per fargli sapere che lo avrei incontrato volentieri il pomeriggio o la prima parte di serata di lunedì – prima, cioè, che Sole tornasse a casa dal lavoro intorno alle 23.

Le quattro sembrava a entrambi un orario ragionevole per incontrarsi e, proprio perché un lunedì non è normalmente un giorno di vacanza, ho lasciato decidere a lui il luogo e i tempi.

Quando, con ancora impressi sulla retina i rossi di Hans Memling, mi sono trovata a fronteggiare manufatti artistici della seconda metà del novecento con i capelli disastrati (raccolti in una treccia tenuta insieme da una matita Ikea recuperata miracolosamente in borsa) e un piumino più adatto a un’escursione al polo nord che a una galleria di arte contemporanea, tuttavia, mi sono sentita un po’ fuori tempo, fuori luogo e fuori contesto.

Avrei voluto aver almeno riletto una volta quel volumetto sul dadaismo, essermi fatta uno shampoo (e magari anche un impacco lucidante) venti minuti prima e, soprattutto, indossare un microscopico cappottino a delineare una silhouette già definitivamente approvata dalla mia dietologa. In assenza di tutte queste cose, superato il primo momento di frustrazione e liberatami del senso di inadeguatezza, mi sono limitata a godermi la mostra – apprezzando in particolare una scatola di sigari ricoperta di molle chiamata It’s Springtime.

Il fatto è che ci sono uomini che non hanno mai fatto parte del mio carnet sentimentale: quelli che al ristorante ti chiedono cosa vuoi mangiare per essere loro a comunicarlo al momento delle ordinazioni; quelli che sono sempre vestiti nel modo giusto per l’occasione giusta e che, non so se ciò nonostante oppure proprio di conseguenza, ti fanno sentire bene anche se sei conciata nel modo meno consono possibile; quelli che sanno sempre e comunque dove andare nel momento in cui ti viene voglia di bere un caffé, un te o addirittura un improbabile liquore di bacche giamaicane e, immancabilmente, il luogo in cui servono ciò che tu desideri è incredibilmente bello e accogliente, per non parlare del fatto che la lunghezza del percorso per raggiungerlo è direttamente proporzionale alla comodità delle tue scarpe e inversamente proporzionale al livello di stanchezza; quelli che, addirittura, ti consigliano la strada da fare per raggiungere un posto perché da quel tratto si gode di una vista mozzafiato sulla città o, in alternativa, c’è uno scorcio architettonico così incantevole che ti chiedi come sia possibile tu non l’abbia mai notato prima. Quelli che, maledizione a loro, si ricordano di tutte le minuzie che hai detto sette mesi prima e te le restituiscono per innescare una lite senza fine o, al contrario, per farti sentire la persona più ricca di spunti e contenuti interessanti che abbiano mai incontrato nella loro vita.

E lo fanno con tutti e con tutte, e tu non soltanto lo intuisci, ma lo sai; ne sei perfettamente consapevole perché tali comportamenti sono frutto dell’educazione ricevuta e di abitudini acquisite con il tempo e l’esperienza: non possono essere semplicemente innati – non se presenti tutti insieme contemporaneamente nella stessa persona, per lo meno. Anche se, a voler proprio essere precisi, un assaggio di tutto questo era già presente quando la persona in questione ancora non aveva l’età per guidare un’automobile, ma tu eri forse troppo inesperta per renderti conto del fatto che nel resto della tua vita avresti sempre incontrato qualcos’altro, perché di qualcos’altro saresti sempre andata alla ricerca.

E ti chiedi come sia possibile che questi uomini, nonostante l’assoluta – se non addirittura esplicitamente dichiarata – assenza di esclusività, riescano a farti sentire un’eletta.

Ed è di questo che si tratta: accompagnarmi per una mostra che mi sarei pentita di non essere riuscita a vedere; portarmi a cena in un posto da cui per quasi tre ore ho ammirato il panorama che, da quando lo scoprii per la prima volta tanti anni fa (e da dieci piani più in basso), mi riempie il cuore di gioia più di qualsiasi altro; non riempirmi di complimenti, ma dosarli nella quantità, nel tono, nel modo e soprattutto nei contenuti giusti; farmi sentire investita dell’unica responsabilità di assaporare il cibo, il vino e la conversazione senza dovermi (pre)occupare di nient’altro se non di impostare la modalità comportamento da tenere in ristorante chic maneggiando posate e bicchieri; e ancora e ancora e ancora.

Ma, per quanto scrivevo prima, era in me sempre presente un sottofondo di consapevolezza relativa al fatto che io non ero necessariamente IO, quanto piuttosto la persona con la quale si accompagnava quella particolare sera (e, se proprio devo raccontarla tutta, anche il pomeriggio del giorno dopo e di quello dopo ancora, ma questa è un’altra storia in cui la parte del leone la fa la migliore torta di mele che abbia mangiato in vita mia. Però la prossima settimana io ho appuntamento con la dietologa, quindi faccio finta che non sia successo).

E poi, in fondo, non stavamo facendo altro che una simpatica rimpatriata tra compagni di scuola: pettegolezzi su antiche conoscenze comuni, una spruzzata di ricordi e qualche commento sulle coppie sedute nei tavoli accanto.

Checché ne pensi e ne dica Sole, non si trattava mica di un appuntamento galante.

Vero?


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