Forse non lo sai ma pure questo è amore

Finalmente è arrivato. Se ne era parlato talmente tanto tempo fa che quasi me ne ero dimenticata, e invece: oggi finalmente è qui, accanto a me. E’ un libro, ovviamente; di questi tempi, poche cose riescono a farmi battere il cuore forte quanto un libro – mentre per deludermi ci vuole davvero poco, ora che ci penso. E comunque.

Ho la grande fortuna di fare parte di un comitato di lettura di una casa editrice: significa che posso leggere libri gratis e spesso, addirittura, posso scegliere quale farmi mandare. Oltre al fatto, non privo di importanza per quanto riguarda il livello della mia gratificazione professionale, che esistono persone che prendono in considerazione anche la mia opinione quando si tratta di decidere se farlo tradurre o meno.

L’appartenenza a un comitato di lettura è la mia egofarm preferita: lusso allo stato puro. Lo scrivo perché si tratta di un sogno che è diventato realtà – e di questi tempi è raro che i sogni si avverino, quindi vale la pena che lo urli ai quattro venti. Certe cose accadono ancora. La mia fata madrina, per inciso, si chiama… no, non lo scrivo come si chiama, però è una fata madrina un po’ particolare, perché colei la quale mi ha dato accesso al privé dell’egofarm della lettura è stata, allo stesso tempo, la persona con cui, in terza media, tagliai scuola per la prima volta.

(Si dice ancora “tagliare scuola”? Lo chiedo perché tempo fa ho sentito mio padre, ultra-sessantenne, utilizzare il termine “schissare da scuola” e mi è sembrato vetusto. Quanto ci vorrà perché anche il termine che utilizzo io divenga vetusto? Lo è già? Mi legge qualcuno sotto i vent’anni? O forse ventiquattro sono sufficienti perché ci sia un gap generazionale? Yuhuu, ci siete ancora?)

Image of Love and Sex with Robots

Il libro che aspettavo si intitola, come potete vedere dall’immagine a fianco, Love and Sex with Robots. Non l’ho ancora neanche aperto, a dire il vero; preferisco aspettare di aver finito il romanzo e i tre saggi che ho sparsi tra comodino e altrove, tanto per gustarmelo al meglio. Scusate, mentivo: non è vero che non lo ho aperto; l’ho sfogliato un po’ distrattamente, fermandomi a leggere qua e là come faccio sempre quando ho un nuovo libro tra le mani.

Questo mio procastinare, a dire il vero, è parzialmente dovuto al timore di dover alla fine dare ragione a quel mio collega che l’aveva denigrato, sottolineando che tutti i libri che contengono nel titolo parole come “sesso” e “amore” sono noiosi o quanto meno assai banali. Sarà. Intanto, mi interrogo su quello che scoprirò leggendolo; in parte i contenuti li posso immaginare sulla base del comune buonsenso, in parte li posso desumere dal brillante articolo di Regina Lynn da cui mi è venuta l’idea di farmelo spedire. In parte, ancora, mi chiedo cosa davvero il futuro ci stia per portare, come la tecnologia ci stia per plasmare e in quale modo la genetica ci stia per cambiare sotto un aspetto che i mezzi di comunicazione non prendono in grande considerazione in modo esplicito: il fronte emotivo.

Il tema dei sentimenti dei robot(s) (in italiano credo si possa omettere la s, nel plurale 😉 ) è stato oggetto di indagine in libri e film fin dall’avvento del concetto stesso di robot – che, per inciso, viene dal ceco robota ed è stato usato per la prima volta nel 1920 (qui, se vi interessa tutta la storia). Niente di nuovo sotto il sole, dunque; o almeno così pare.

D’altronde, dalla lettura di questo placido (splendido) post risulta evidente che molte persone – compresa la sottoscritta – ogni giorno si innamorano di qualcosa di molto meno tangibile di un robot.

Eppure, stavo pensando a una cosa. Pensavo a quando ero all’università e, al secondo anno, c’era una ragazzo che mi piaceva molto e che conoscevo poco. All’epoca ero molto più sfacciata di quanto non lo sia adesso: ogni mattina, a lezione, mi sedevo programmaticamente nella fila davanti alla sua, in una posizione in cui non avrebbe potuto fare a meno di vedere il mio profilo (o per lo meno i miei capelli) ogni volta in cui avesse voluto guardare in direzione del professore che parlava.

Ogni mattina, conclusasi la lezione, andavo nell’aula informatica a controllare la posta e fare le altre cose che all’epoca si facevano su internet (i blog cominciavano appena a prendere forma, e neppure noi studenti della facoltà di Scienze ne avevamo mai sentito parlare). Con altrettanta determinazione, facevo in modo di sedermi sempre allo stesso posto, giungendo a litigare se lo stesso era occupato da qualcun altro, addirittura; non a causa del ragazzo che mi piaceva, però: mentre io avevo un’ora libera lui aveva un altro corso. Era per poter usare sempre lo stesso computer. Perché era il mio computer – o almeno io lo sentivo come tale.

Alla fine, io e quel ragazzo siamo usciti insieme per qualche mese, ed è stata una storia bella ancorché un po’ troppo sofferta, almeno da parte mia; quando lui, una calda mattina d’estate, mi ha lasciata, tuttavia, mi sono limitata a piangere per mezza giornata: alle quattro del pomeriggio, infatti, ero già di ritorno dall’agenzia di viaggi, dove mi ero prenotata una vacanza a Londra di quattro settimane in cui ho avuto modo di perdere la testa per un fumettista svizzero che si chiamava Philipp e si vestiva come se vivesse nella copertina di un disco degli anni ‘70.

Sul mio computer, invece, ho continuato fedelmente a lavorare (e a litigare per averne l’esclusiva) durante tutti gli anni dell’università, sino a scriverci la tesi. Lasciarlo è stato traumatico – e se sono riuscita a farlo è stato soltanto perché, una volta laureata, non avevo più accesso all’account studenti grazie al quale si poteva accedere alla rete dell’aula informatica. Ho continuato a rimpiangerlo anche quando sono ascesa all’empireo della rete per studenti laureati e professori, composta da computer infinitamente più potenti e con dieci volte lo spazio di memoria. E ancora adesso, con il mio Mac non ultimissimo modello ma comunque abbastanza performante (o mio dio, ma cosa scrivo?) da consentirmi di guardare e riguardare i miei film preferiti, ogni tanto sento la mancanza di quel macchinone lentissimo che, nonostante Linux e compagnia bella, si impiantava ogni dieci minuti.

E poi ditemi che questo non è amore

6 Risposte to “Forse non lo sai ma pure questo è amore”


  1. 1 Mitì 10 gennaio 2008 alle 1:52 am

    Il primo computer non si scorda mai.
    ;-*********

  2. 2 odiamore 10 gennaio 2008 alle 1:57 am

    Mitì: è proprio vero! anche perché tutti quelli usati in precedenza erano dei miei genitori e si sa: i matrimoni combinati non piacciono a nessuno 🙂

  3. 3 xlthlx 10 gennaio 2008 alle 11:30 am

    allora: in italiano si dice marinare la scuola, che io sappia in piemonte si dice ‘bigiare’ e dalle mie parti si dice ‘fare sega’.
    ma il concetto sempre quello e’ 😉
    il mio amore per il mio pc si esplica nel nome che gli ho dato: e’ la mia bambina 😀

  4. 4 Alexiel 10 gennaio 2008 alle 2:00 PM

    Da me si diceva Fare salasso. Fai bene ad essere così fiera e felice di essere in un comitato di lettura, motivo di orgoglio! ommioddio: invidia allo stato puro.
    p.s. almeno potrò approfittare un pò della tua fortuna grazie alla tua libreria anobii 😉

  5. 5 odiamore 10 gennaio 2008 alle 2:23 PM

    Per xhtlx: è vero, marinare la scuola! Però da un lato è vero che una volta in Piemonte si diceva bigiare, ma ai tempi dei miei genitori, credo – è vetusto come “schissare” 😀

    Per Alexiel: Fare salasso è tremendo! 🙂 Dovresti vedere i libri che leggo, prima di invidiarmi; ti dico soltanto che non si tratta di narrativa 😉

  6. 6 ilredeire 11 gennaio 2008 alle 12:02 PM

    In romagna si dice “fare puffi” o anche “sgarrare”.
    A me piacciono i capelli delle donne, li preferisco lunghi, comunque sia penso di essere un feticista del CApeLlo femminile.
    Bà… il primo amore… bà… brutta roba…
    CIAUZZZ 😀


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